Mentre al Senato si discute il disegno di legge Gelmini, in tutta Italia inizia una settimana di mobilitazioni per cercare di bloccare la nefasta riforma. Mobilitazione che sta passando abbastanza in silenzio sui media, presi dalla cricca, dalle intercettazioni e dalla crisi economica. Eppure è un fatto altrettanto importante.
Assemblee iniziano a moltiplicarsi nei vari atenei, come quella che si è svolta oggi a Tor Vergata, dove ricercatori e studenti si sono riuniti nella facoltà di Giurisprudenza, per poi occupare simbolicamente il rettorato.
Domani mattina è invece previsto un sit-in davanti al Senato.
La mobilitazione, anche se silenziosa, anche se si avvicina l’estate (e quindi gli esami), comincia a riprendere vita dunque. Ora occorre vedere che forma e che forza assumerà. Ma un fatto è certo. Questo è l’ultimo baluardo. Se la Gelmini non viene fermata neanche adesso, la situazione assume tinte tragiche (ovviamente non ce l’ho con la Gelmini, figurina ignava messa lì per fare il gioco sporco di altri).
Tragico non è un aggettivo esagerato in questo caso. Per due motivi molto semplici. Uno, è molto pratico. Se si va avanti su questa strada, già dal prossimo anno interi corsi di laurea e intere facoltà verranno fisicamente cancellati, oppure ridotti al lumicino. Il secondo motivo è molto più profondo. La distruzione dell’università pubblica che sta andando avanti da anni, arriverà al passo finale, verrà data l’ultima picconata. E l’università sarà consegnata ai poteri che hanno interessi ad investire (per proprio tornaconto) nella ricerca. Una ricerca quindi sempre più mercificata. L’università pubblica diventerà sempre più privata, perché le tasse, già ora alte, continueranno ad alzarsi. Si verrà a definire quel sistema (assai poco lungimirante, nonché poco democratico) per cui la ricerca avrà un fine solamente “aziendale”, per cui si tornerà ad accentuare l’immobilità sociale, per cui il concetto che istruzione è uguale a civiltà va cancellato a favore di una società che con le parole “civile” e “democratico” non vuole avere niente a che fare.
Di fronte a questa prospettiva, l’ultimo baluardo va costruito da tre punti di vista. Il primo è quello della mobilitazione congiunta di studenti-ricercatori-professori, una mobilitazione però molto più forte, coesa e continua di quella dell’Onda, una mobilitazione dura fino all’ultimo, perché ci deve essere la consapevolezza che questa rischia di essere una strada senza ritorno.
Il secondo aspetto è quello dei partiti d’opposizione. Opposizione che ha assistito silente ai primi tagli dell’anno scorso (altra cosa in cui ha fallito Veltroni, peraltro). Ora i partiti dell’opposizione, PD in testa (ma non deve mancare neanche il contributo delle forze extra-parlamentari come Sinistra e Libertà e Rifondazione), devono far sentire la loro voce. Anche per far capire che non sono complici di questa vicenda. Il piano “Italia 2011” del PD mette istruzione e ricerca al primo posto, ed è già un primo passo. Ma serve di più. Serve un’opposizione battagliera che sia in grado di porre la vicenda in primo piano, facendo capire alla gente che si sta affrontando una questione nazionale, importante tanto quanto la crisi economica e la nuova tangentopoli.
Il terzo aspetto riguarda però anche la gente normale, anche chi non si interessa tanto di politica o chi magari non ha un figlio che va a scuola. Questo è infatti un problema che riguarda tutti. Anzi, riguarda più le famiglie che hanno bambini piccoli piuttosto che universitari che stanno terminano il loro percorso di studi. Ma riguarda soprattutto il paese, perché è sull’istruzione e sulla ricerca che si gioca il futuro e questo deve essere chiaro a chiunque. E’ ora che la gente, sempre così soporifera, in grado di riscaldarsi solo durante i mondiali, cominci ad essere meno indifferente.