Il 1° maggio del 1947, le popolazioni di tre paesi della provincia di Palermo, si riunirono nella piana di Portella della Ginestra. Si ritrovarono per festeggiare, come da tradizione interrotta solo dal fascismo, la festa dei lavoratori: erano infatti contadini, braccianti, gente che viveva spesso alla giornata. Ma si ritrovarono anche per festeggiare l’esito delle elezioni regionali che si erano tenute da pochi giorni e che avevano visto l’affermazione del Blocco del Popolo, ovvero l’alleanza fra il partito comunista e quello socialista.
Verso le dieci di mattina prese la parola l’oratore. Dopo cinque minuti si sentirono dei colpi. La gente applaudiva: pensava si trattasse di mortaretti per festeggiare. Ma poi cominciarono a cadere a terra i muli che formavano una sorta di cerchio intorno alle persone. Poi il fuoco si intensificò ancora, ora sulla gente inerme che tentava di fuggire, ma non aveva riparo: si sparava dai due monti circostanti. Fu una strage: 11 morti e decine di feriti.
A sparare fu Salvatore Giuliano, famigerato bandito che da tre anni teneva sotto scacco le forze dell’ordine. Ma perché aveva sparato, con la sua banda, su una folla di povera gente? Qui finisce la verità storica ed iniziano le ipotesi.
Il processo sulla strage trovò infatti una risposta inadeguata: uccise per intimidire i comunisti che facevano la spia contro di lui. Ma evidentemente questa risposta non regge.
Molti fili si muovevano intorno a Salvatore Giuliano, molto più grandi di lui: era l’Italia devastata che usciva dalla guerra ed entrava poco alla volta nella guerra fredda, era la Sicilia dove la mafia ricominciava a tessere le sue trame di potere dopo il fallimento dell’esperienza del separatismo siciliano.
Qual era il ruolo, nella strage di Portella e in tutta l’attività di Giuliano, della mafia, dello Stato, di personaggi come Mario Scelba, di polizia e carabinieri, degli americani che guardavano molto attentamente alla Sicilia, dei gruppi fascisti che non si erano rassegnati dopo la fine della guerra?
Certamente Portella della Ginestra resta il primo mistero della repubblica italiana, forse la prima strage di stato, preambolo a tutte quelle che hanno caratterizzato la storia di questo paese negli anni di piombo.
Queste risposte mancora ancora oggi a noi e non le aveva neanche Francesco Rosi quando girò questo film agli inizi degli anni ’60. Ma le trame, le perplessità, erano già le stesse. E Rosi le ricostruisce con un film potente, con i toni dell’inchiesta e del realismo migliore. Nella narrazione si alternano tre periodi temporali differenti, segnati da fotografie diverse: le azioni della banda di Giuliano, il ritrovamento del cadavere, il processo sulla strage. Ma dietro l’inchiesta e il realismo, in una realtà che non ha ancora risposte, sembra prendere vita un quadro impressionista, con schizzi veloci che evocano un clima, sfumature di ombre e luci, tratti rapidi che scavalcano il personaggio Giuliano e ricostruiscono un contesto socio-politico che si eleva a tragedia.
Come ha detto il critico cinematografico Morando Morandini: ” messo ai margini il personaggio, il film parla dei rapporti tra mafia, banditismo, potere politico, potere economico. E’ il film di Rosi più ambizioso e potente: la cronaca viene innalzata a storia e si trasforma in tragedia sociale”.
Sopra a tutto, il colpo di genio del regista, è il non riprendere mai in volto il personaggio di Giuliano. Lo vediamo sempre di schiena, avvolto nel suo tipico cappotto, senza parlare mai. E’ la sintesi di tutta la storia: un enigma silente, un’ombra che nasconde, a 63 anni di distanza, la verità.
Un’ultima annotazione. Quando nel 1962 il film uscì nelle sale, fu vietato ai minori di 16 anni. La censura della storia.
Diego Gavini