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Fonte: unileftorvergata.wordpress.com

Chi oggi ha sfogliato il Corriere della Sera o ha dato un’occhiata al suo sito, ha potuto leggere un editoriale di Angelo Panebianco sulla riforma universitaria, dal titolo: “L’università dimenticata”. La lettura delle prime righe appare incoraggiante: “Il governo e la sua maggioranza, o ciò che ne resta, accumulano autogol“, scrive Panebianco. Ancora un paio di frasi invece, e si comincia ad essere dubbiosi. Continua infatti l’editoriale: “Adesso, la maggioranza è anche decisa a giocarsi credibilità e aperture di credito faticosamente ottenute, grazie al lavoro dei ministri migliori, presso settori qualificati dell’opinione pubblica.”. E ci si chiede: ma di cosa sta parlando Panebianco? Ed ecco la sorpresa: della riforma universitaria e del suo “probabile affossamento“.

In pratica Panebianco, dopo aver esaltato la Gelmini come uno dei migliori ministri di questo governo (è vero che ci vuole poco ad essere sopra la media, dati i nostri ministri, ma indicare Mariastella come uno dei migliori è già chiaro segno di capire poco di politica) si rammarica del procrastinamento della discussione sul ddl Gelmini alla Camera. Come ci racconta infatti il giornalista del Corriere, con la situazione politica che si è creata, rimandare è un rischio, perché il governo potrebbe cadere da un giorno all’altro. E se cadesse, la riforma finirebbe in un nulla di fatto. Tale evento, che suscita le speranze di ogni studente sano di mente, è invece additato da Panebianco come un grandissimo rischio, perché: “La riforma del ministro Mariastella Gelmini è un ambizioso tentativo di ridare slancio all’istruzione superiore. Non è perfetta. Ci sono anche cose che non convincono. Ma è sicuramente il frutto di uno sforzo encomiabile di affrontare di petto i problemi dell’Università“.

Ovviamente Panebianco non indica quali sono le qualità di questa tanto esaltata riforma. Non spiega come è possibile migliorare l’università mortificando la ricerca, uccidendo la democrazia interna, lasciando mano libera ai rettori di portare chiunque voglia nei consigli di amministrazione. Non spiega come questa riforma, unita ai tagli di Tremonti, possa garantire la libertà e la qualità dell’università pubblica.

Ed è ovvio che Panebianco non spieghi tutto questo. Per il semplice motivo che non può essere spiegato. Qui nessuno difende l’esistente, ma anche un bambino di tre anni è in grado di capire che questa riforma è la pistola puntata al cuore dell’università pubblica. Oltre la demagogia (“Chi la rifiuta in blocco lo fa per faziosità ideologica“, “Molti, però, fra gli universitari, si rendono conto che il provvedimento è indispensabile”) l’editoriale non ci dice quindi niente. Anzi, esalta il “merito della Gelmini e del suo lavoro“, si schiera con ”quei rettori che avevano dato fiducia alla Gelmini“. E, ripeto, lo fa senza spiegare quali siano i meriti della Gelmini, senza dirci che cosa di questa riforma è tanto convincente.

Ma si sa, il 90% dell’informazione oggi non si preoccupa più di spiegare. Dà giudizi di parte, senza neanche preoccuparsi di dare forza alle proprie tesi, gioca a chi la spara più grossa: l’importante è far colpo sul padrone. Minzolini docet.

Pochi mesi fa, in una querelle che ha fatto abbastanza rumore, Eugenio Scalfari disse al direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli, parafrasando Manzoni: “chi non ha coraggio non se lo può dare”. 

Probabilmente questa mancanza è abbastanza comune dalle parti del Corriere, quindi Panebianco non ti preoccupare: sei in buona compagnia.

Diego Gavini 

7 giugno 2009. Si è appena conclusa la tornata per le elezioni europee. Un Di Pietro raggiante per i consensi ottenuti dal suo partito, che in appena un anno raddoppia i propri voti, afferma che ormai l’Italia dei Valori è un partito vero. Talmente vero che non deve più vivere di personalismi, quindi, sentenzia l’Antonio nazionale: “via il mio nome dal simbolo”.

19 settembre 2010. Dalle elezioni europee sono passati più di 15 mesi. Il nome di Di Pietro è sempre lì.

Sono piccole cose, ma servono a far riflettere sulla coerenza delle persone…

Diego Gavini

 

In questi giorni stiamo assistendo ad una campagna mediatica di primo ordine portata avanti dai giornali della destra contro Fini. Non voglio entrare nel merito delle accuse rivolte all’ormai nemico di Berlusconi, né attaccarlo né difenderlo. In questo caso quello che è più importante notare è un altro fattore, ovvero l’ennesima dimostrazione del bassissimo livello dell’informazione in Italia.

A mio avviso un riscontro importante per verificare il grado di democrazia in un paese è il livello qualitativo del mondo dell’informazione. Le campagne portate periodicamente avanti da giornali come “Il giornale” e “Libero”, dimostrano come sia bassa la qualità dell’informazione e quindi della democrazia.

La campagna anti-Fini cosa ci dimostra infatti? Un buon giornalismo? La capacità di rintracciare una notizia scottante e portare avanti una battaglia? No, direi proprio di no. Quello che è evidente è piuttosto la capacità di strumentalizzare una notizia ai propri fini. Una strumentalizzazione che risulta limpida da una veloce analisi dei fatti.

Il fatto principale è ovviamente la notizia della casa di Montecarlo. Ma è uno scoop? Credo proprio di no. La notizia è uscita non a caso appena il presidente della Camera è stato espulso dal Pdl e ha dato vita al proprio gruppo parlamentare. Una coincidenza temporale inquietante, che non può non ricordare i tanti “avvertimenti” mandati da Feltri a Fini nel corso di questi ultimi due anni.

Io mi chiedo: se ora il caso dell’appartamento di Tulliani fa tanto scalpore, perché “Il giornale” o “Libero” non hanno fatto uscire la notizia a tempo debito, quando ne sono venuti a conoscenza? La risposta è semplice: le notizie vanno utilizzate solo per attaccare politicamente i nemici. Se a questo aggiungiamo il fatto che è impossibile pensare che Silvio Berlusconi non detti la linea de Il Giornale ci troviamo di fronte a un quadro in cui i mezzi di informazione abdicano completamente dal proprio ruolo, per assumerne un altro: quello di far uscire “dossier” scottanti da usare a favore dei propri amici, quello di portare avanti discriminazioni mediatiche a favore di altri (chi è che non ricorda il caso Boffo?). Per non dire poi della mancanza di coerenza delle proprie affermazioni: ora si attacca Fini perché “non poteva non sapere”. Berlusconi è stato invece sempre difeso dai giornali a lui vicini proprio invalidando questa teoria. Perché quello che vale per Fini non vale per Berlusconi? Per un semplice motivo, ovvero che non si compie il proprio lavoro con onestà intellettuale, ma ci si comporta da “clienti”.

In un paese in cui la gran parte dei mezzi di comunicazione è nelle mani di un uomo solo tale fenomeno acquista tratti ancora più preoccupanti, perché significa che le notizie non vengono date per quello che sono: vengono monopolizzate, nascoste in qualche fascicolo e poi tirate fuori quando si deve attaccare qualcuno.

Ripeto, la mia preoccupazione non è assolutamente difendere Fini. La mia preoccupazione è che nuovamente constatiamo come  in questo paese la democrazia che deriva dall’informazione è morta.

Diego Gavini

Cercare di capire come andrà a finire questa crisi interna alla maggioranza e quali ne saranno le conseguenze è una previsione che rimane molto oscura. Quel che è più facile capire è quello che si può volere da questa crisi, gli scenari più graditi; così, almeno per fare delle ipotesi.

Evidentemente andare avanti con questo governo è quanto di più deleterio sia immaginabile. Già ha fatto quanto di peggio ha potuto, ora, con un Berlusconi sempre più ostaggio della Lega, rischieremmo veramente il tracollo.

Ma le elezioni anticipate sono auspicabili? A mio avviso no. Bisogna infatti essere realisti. Avere un nuovo governo fragile, anche se di centro-sinistra, sarebbe un altro duro colpo per il paese (e anche per la sinistra). Perché parlo di governo fragile? Per una serie di ragioni. In primo luogo non è detto che l’accoppiata Berlusconi-Bossi non abbia chance in una nuova tornata elettorale, ed una loro nuova affermazione getterebbe l’Italia nell’abisso; inoltre, se anche i due dovessero perdere, non credo che perderebbero con un grande distacco percentuale, e abbiamo già visto quanto sia costata al secondo Prodi una vittoria risicatissima. In secondo luogo, anche nel caso in cui B&B non avessero i numeri per vincere, chi al momento attuale è pronto per l’alternativa? Non parlo qui di un’inadeguatezza dei partiti di sinistra, ovviamente. Parlo del fatto che i contorni della coalizione che deve sostituire il centro-destra non sono affatto delineati. Casini è dentro o fuori? Chi fa il premier, Bersani, Vendola o qualcun altro? Qual è il ruolo di Rifondazione comunista? Qual è il programma comune dell’attuale opposizione? Mettersi insieme e poi non sapere come governare non è certamente una prospettiva positiva. E in questi giorni si vede un’effettiva fretta. Di Pietro vuole il voto immediato. Vendola vuole il voto immediato. Entrambi però dimostrano una visione più egoistica che costruttiva, a mio avviso. Di Pietro vuole il voto perché sa che in questo momento come minimo raddoppierebbe i propri numeri (ricordiamoci che l’Idv alle elezioni politiche prese circa il 4%, oggi può puntare quasi alla doppia cifra). Vendola, dall’altro lato, vuole il voto per portare il suo partito in parlamento.

Detto questo, non vogliono dire che in Italia non ci sia la massima urgenza di un governo di centro-sinistra e di mettere finalmente Berlusconi ai margini della politica. Ma questa transizione ha bisogno di un minimo di tempo. C’è bisogno di un governo di transizione che modifichi la legge elettorale, che prenda due-tre provvedimenti importanti per la crisi, che metta in un angolo le discussioni sul ddl intercettazioni e qualcun’altro parimenti negativo come quello sull’università. In questo lasso temporale del governo di transizione il centro-sinistra avrà la possibilità, ma soprattutto l’obbligo, di costruire un vero progetto di alternativa.

Costruire una piattaforma seria, superando l’ingenuità di pensare che col voto immediato si risolve tutto, è un atto di responsabilità doveroso. Solo dopo questo atto sarà possibile finalmente mettere la parola fine alla triste pagina della dinastia berlusconiana.

Diego Gavini

A tutti quanti un po’ mancavano gli editoriali di un Minzolini ultimamente un po’ sottotono. Ma di fronte alla crisi interna del Pdl (peraltro prima dell’esplusione di Fini) il ritorno del fedele scudiero del cavaliere non poteva farsi attendere. E il nuovo Fede continua a non deludere, nel suo editoriale c’è un po’ di tutto: difesa a spada tratta del governo, solito attacco alla giustizia, il beneplacito per l’attacco a Fini… In pratica, l’informazione sempre il solito “stile Minzolini”!

 

Ho aperto questo mini-saggio affermando la necessità di una rivoluzione culturale in Italia. È proprio il cercare di capire come questa rivoluzione può avvenire ciò che rappresenta il fulcro di questo scritto. Ciò nonostante mi sono dilungato fino a questo momento su come deve organizzarsi il partito che deve guidare questa svolta. Questa parte non era però secondaria. Solo da un’organizzazione e da una struttura forti possono fornire le basi per far sì che un partito abbia gli strumenti interni per portare avanti con vigore le proprie battaglie. Ed è solo con una struttura aperta realmente all’interazione delle masse nel partito che si pone il primo mattone per cominciare questa rivoluzione: le fondamenta del cambiamento stanno infatti proprio in una nuova concezione e in un modo nuovo di vivere la politica. Oliare al meglio i meccanismi di funzionamento del partito è dunque quel mezzo necessario con cui poi avere le armi per aspirare al fine.

E qual è questo fine? Per l’appunto una rivoluzione socio-culturale. Ho già affermato che l’ottica di questa rivoluzione deve essere quella di fare dell’Italia un paese civile. Cosa intendo esattamente per paese civile? Un paese in cui dal bene pubblico discende poi il bene privato. In pratica uno sforzo comune teso a rafforzare lo stato, a far sì che lo stato sia positivamente presente nella vita della società. Uno stato che non va visto nella degenerazione dei regimi comunisti come essere onnipresente, oppressivo e pesantemente burocratico, uno stato che richiede il sacrificio di tutti e che poi non restituisce nulla. Ma uno stato visto come il luogo, lo spazio fisico, in cui la società e le diverse classi che la compongono trovano il mediatore necessario delle loro istanze. Ed è soprattutto uno stato dominato da una “visione politicamente di sinistra”. Non nel senso che debba essere dominato da un partito di sinistra, ma piuttosto che le sue idee-guida siano dominate da ciò che è riconducibile a una visione di sinistra. Ovvero, uno stato che agisce per diminuire le diseguaglianze e per creare condizioni sociali che siano il più possibile eguali: un’istruzione paritaria per tutti, una sanità uguale per tutti, una giustizia che sia uguale per tutti, creazione di possibilità uguali per tutti. Ma soprattutto uno stato che guarda al nuovo senza paura; il nuovo in questo caso è l’idea che solo smettendo di difendere con il coltello fra i denti, scavalcando anche le regole, i propri interessi privati, e solo smettendo di difendersi da ciò che crediamo diverso da noi, si possa creare una società in cui tutti possano vivere meglio. In pratica uno stato che agisce come reale regolatore della società, dando vita a regole e meccanismi che siano uguali per tutti, e soprattutto facendo sì che quelle regole e quei meccanismi siano da tutti rispettati.

Questo tipo di visione è abbastanza complessa e forse non facile da spiegare, anche perché deve trovare esplicazione nei diversi compiti che deve assumere lo stato e i diversi campi in cui deve agire. Fondamentalmente questo significa che ogni settore della vita pubblica va rivisto e cambiato, il tutto nell’ottica di dare vita a una società rinnovata culturalmente. Questi settori sono ovviamente tanti e di natura differente. Cambiarli realmente è quanto di più arduo sia pensabile: vanno eliminati gli interessi delle potenti lobby e categorie; vanno creati nuovi meccanismi di controllo e, soprattutto, bisogna muoversi in direzioni di profondi cambiamenti culturali che sconvolgano pratiche e modi di vedere che si sono fortemente radicati dopo una lunga sedimentazione.

Il compito è così arduo che non pretendo di avere le conoscenze tecniche adeguate per specificare esattamente cosa andrebbe fatto, anzi sono ben lungi sia dal possederle che dall’avventurarmi nel proporle. Quello che voglio tentare di fare è una sorta di programma politico, come se fossimo in campagna elettorale, indicando quali dovrebbero essere, a mio avviso, le linee-guida in cui un partito come il Pd dovrebbe muoversi nei diversi campi.

Premetto che i diversi punti che seguiranno non seguono un ordine di importanza. Non esiste infatti un settore che sia aprioristicamente più importante rispetto ad un altro: il rinnovamento deve toccare l’intero complesso di cose per risultare realmente radicale.

Diego Gavini

Idee, riflessioni e spunti personali su quali dovrebbero essere, a mio avviso, gli obiettivi di un grande partito di sinistra, quale visione di società deve proporre, in quale maniera deve strutturarsi per dare forza al proprio progetto. In pratica, la mia visione della strada che dovrebbe percorre un partito che, in questo momento, non può che essere il Pd. Il tentativo è quello di dare un minimo di organicità a questi pensieri e strutturarli, con i tempi che saranno possibili, per temi. In questa terza parte: la struttura dei circoli.

Un’analisi dell’organizzazione del partito e un’ipotesi di nuova strutturazione di questo, non possono prescindere da una disamina più approfondita di quello che è l’elemento basilare del partito, la cellula più vitale di tale organismo: il circolo territoriale. Soprattutto non si può prescindere dal porre su di esso una lente d’eccezione se l’obiettivo è quello di tornare a creare un contatto fra masse e politica. Il circolo (che possiamo chiamare senza problemi anche sezione) è infatti il luogo più appropriato per creare un simile contatto; è inevitabilmente la sede fisica più appropriata per permettere la reale attività politica delle persone.

Nonostante una rete apparentemente importante di circoli, il Pd soffre proprio in questo campo, per il semplice motivo che si sta adeguando anch’esso alla nuova prassi culturale di creare un distacco fra politica e masse impegnate (anche se ovviamente all’interno del Pd molte componenti remano a favore della direzione più appropriata: una tradizione di contatto col territorio, una richiesta degli stessi iscritti di sentirsi parte integrante del partito, l’idea di rappresentare un partito popolare, e così via).

Come si riflette, da un punto pratico, questa sofferenza? Da un punto di vista generale (generale perché poi occorre fare i dovuti distinguo) i circoli sono abbandonati dallo stesso Pd: il loro peso politico è diventato risibile e anche finanziariamente non c’è aiuto da parte del partito. Ma soprattutto l’attività di chi guida le diverse sezioni è sempre più amorfa: il numero di iscritti cala, il numero di veri e propri militanti è ridotto al lumicino, le iniziative hanno un impatto praticamente inesistente al di fuori della cerchia degli iscritti stessi, il ruolo dei coordinamenti è minimizzato e i circoli sono in mano a poche persone che vedono, proprio nelle sezioni, una possibilità di crearsi un piccolo feudo personale. In pratica l’attività dei circoli si chiude sempre di più nelle mura stesse della sede, mentre chi guida i circoli ha poco interesse ad uscire sul territorio ed allargare le maglia degli iscritti proprio per paura di mettere a rischio il suo “dominio”. L’obiettivo di questi (ripeto che poi è anche opportuno muovere i giusti distinguo) è quello di fare politica fra i soliti noti e mantenere gli equilibri politici territoriali. Il risultato è che i militanti si riducono a misura d’occhio e gli unici giovani che avanzano sono quelli cooptati: il sistema è poi sorretto dalle piccole reti di familiari e amici, iscritti al circolo, che quando si tratta di rinnovare i coordinamenti o i segretari, assicurano col proprio voto il mantenimento di un simile stato di cose (e poi, paradossalmente, sono proprio quelli che più si lamentano che le cose non vanno bene).

Quale dovrebbe essere invece il ruolo del circolo? Gli obiettivi primari e più pratici, sono molto semplici e anche numericamente quantificabili: il primo passo deve essere quello di allargare all’interno dei propri iscritti il numero di veri militanti; il secondo quello di allargare fra il numero di “simpatizzanti”, ovvero di chi già vota Pd, il numero degli iscritti; il terzo è quello di allargare la propria rete sul territorio, al di fuori dei tradizionali elettori. Questi passi devono seguire inevitabilmente un simile ordine, per il semplice assunto logico che è impossibile avere i mezzi per uscire fuori dal circolo se non si riesce a convincere neanche chi è all’interno del bisogno di un simile operato. Questi obiettivi, anche cinici se vogliamo, rispondono a un’esigenza più grande e soprattutto a quello che è il vero ruolo e la ragione d’essere dei circoli stessi: rappresentare, concretamente, il partito sul territorio, esserne il suo braccio, il primo baluardo.

Come fare per dar vita a un simile meccanismo? Attraverso due principali direttrici: creare una struttura solida all’interno del circolo in primo luogo, in secondo facendo leva sulla necessità di accendere nelle persone la passione civile per la politica.

Anche qui (al pari di quanto ho detto sull’organizzazione del partito) torna dunque la necessità di una struttura forte, per il semplice motivo che senza un simile supporto non è possibile dare concretezza alle belle parole; inoltre, senza una simile struttura, le regole perdono il proprio valore e la vita democratica perde senso all’interno del partito, proprio quella vena democratica che è l’elemento essenziale per far comprendere alle persone, ora fuori dalla politica, che un loro coinvolgimento attivo è possibile.

A livello pratico cosa deve cambiare? Il primo passo lo deve fare il partito stesso: oggi la situazione finanziaria di molti circoli è drammatica, per cui diversi di questi hanno chiuso, altri sono a rischio chiusura e altri ancora non hanno i mezzi per promuovere iniziative importanti. Il partito deve quindi intervenire economicamente finanziando ciò che non può essere coperto dal contributo degli iscritti stessi. Questa azione deve essere però accompagnata anche dalla prima regola per la maggiore democraticità dei circoli stessi: avere bilanci chiari e trasparenti (a chi, giustamente, può chiedersi dove i partiti possono prendere questa ingente quantità di denaro risponderò più avanti, nella parte dedicata ai finanziamenti dei partiti; comunque, già nell’attuale stato di cose, bisogna ripensare a redistribuire in maniera diversa i fondi dei partiti).

Il secondo passo è invece interno ai circoli, anche se le regole devono comunque essere imposte sempre dal partito. Oggi gli strumenti di democraticità esistono nei circoli del Pd, siano essi i coordinamenti che le assemblee degli iscritti; esistono anche le giuste enunciazioni di principio nello statuto del Pd su quale deve essere il ruolo dei semplici iscritti così come dei segretari di circoli. Quello che manca sono le regole per far sì che questi organismi abbiano il ruolo che gli dovrebbe competere: in mancanza di regole scritte, è diventata la prassi vigente quella di non dare peso ai naturali meccanismi di democrazia.

Occorrono dunque regole e trasparenza. I coordinamenti e le assemblee degli iscritti vanno riuniti periodicamente ed in maniera assidua: una volta a settimana i coordinamenti, una volta al mese le assemblee. Quello che viene detto all’interno di queste riunioni va messo a verbale. Ogni circolo deve essere fornito di un sito internet in cui inserire verbali, elenchi degli iscritti, bilancio economico, calendario delle iniziative, regole di funzionamento del circolo, al fine di rendere trasparente la vita della sezione, tanto al di fuori degli iscritti che fra gli iscritti stessi; siti in cui gli iscritti possano esprimere le proprie opinioni per condividerle senza censura con gli altri iscritti. Le regole devono poi essere rispettate da tutti: un segretario che non adempie i propri doveri deve essere deposto dal suo incarico, così come i membri del coordinamento troppe volte assenti senza giustificazione o come i tesorieri che agiscono senza approvazione dei coordinamenti.

Tutto questo complesso di regolamenti permette da un lato di creare quei meccanismi in cui ognuno può sentirsi parte attiva del circolo e dall’altro ostacola la possibilità che i “caminetti” gestiscano in maniera personale le sezioni. Allo stesso tempo queste regole non sono il fine di un circolo ma il mezzo con cui è possibile rafforzarsi e uscire sul territorio. I circoli devono infatti avere il ruolo (e l’obbligo) di creare un calendario serrato di iniziative: incontri con associazioni di quartieri, incontri con consiglieri municipali\comunali, seminari, iniziative culturali, battaglie sul territorio. Gli eletti e i dirigenti di più importante grado (come i consiglieri regionali o i deputati e i dirigenti nazionali del partito) devono avere poi il dovere di svolgere una serie di iniziative all’interno dei circoli, sia per creare quel contatto necessario fra alto e basso, sia perché sono in grado di svolgere quel ruolo di richiamo che può aiutare a far avvicinare la gente alle sezioni.

Il ruolo dei circoli non termina però sui quartieri di loro competenza ma continua a essere rilevante nei quadranti territoriali più estesi, come, per fare un esempio, i municipi romani. Il contatto e la collaborazione fra i circoli dello stesso quadrante sono necessari sia perché le attività svolte sono simili sia perché bisogna evitare la costruzione di riserve indiane.

Tali coordinamenti sulla carta esistono (sempre riferendomi a Roma ogni municipio ha il suo coordinamento municipale di cui fanno parte i membri dei coordinamenti dei singoli circoli e gli eletti del territorio, oltre che la segreteria del coordinatore) ma, al pari dei circoli, la loro attività è abbastanza risibile, perché vige lo stesso problema: non si creano quegli spazi fisici di contatto senza i quali l’attività di questi organi non può che rimanere aleatoria e poco democratica, dunque poco incisiva.

Nella parte precedente ho ipotizzato la creazione di direzioni municipali (che rispetto agli attuali coordinamenti sono più ristrette e hanno il compito di promuovere i candidati consiglieri municipali: resto dunque sempre all’interno dell’esempio romano, ma il discorso vale ovunque). Ma già allo stato attuale i coordinamenti possono svolgere un ruolo di ben maggiore rilievo. Il mezzo per farlo è quello di dotarli della struttura e delle regole che ho ipotizzato per i circoli territoriali. In pratica il coordinamento deve diventare un circolo di livello superiore (infatti andrebbe dotato di una sede propria), ma a differenza dei semplici circoli ha due prerogative in più. In primis deve svolgere quell’attività necessaria di controllo dei circoli stessi. Secondariamente deve essere il luogo di contatto fra i circoli e gli eletti, quelli che, teoricamente, non sono altro che i portavoce delle esigenze del territorio di cui si fanno voce politica proprio le sezioni. Questa funzione sulla carta già esiste, ma senza un sistema vero di regole, le prassi negative superano facilmente i doveri.

Questo discorso va chiuso con un’affermazione ovvia: come i coordinamenti municipali controllano i circoli, la direzione comunale deve controllare quella municipale, quella regionale quella comunale e così a salire. Anche questo meccanismo nella teoria esiste. Ma anche in questo caso l’assenza di un reale regolamento ha prodotto un isolamento reciproco dei vari livelli, il che è anche una delle cause principali per cui non c’è contatto fra la base e i vertici: i collegamenti sono stati lacerati.

Diego Gavini

Idee, riflessioni e spunti personali su quali dovrebbero essere, a mio avviso, gli obiettivi di un grande partito di sinistra, quale visione di società deve proporre, in quale maniera deve strutturarsi per dare forza al proprio progetto. In pratica, la mia visione della strada che dovrebbe percorre un partito che, in questo momento, non può che essere il Pd. Il tentativo è quello di dare un minimo di organicità a questi pensieri e strutturarli, con i tempi che saranno possibili, per temi. In questa seconda parte: la struttura del partito. 

 

Nei punti finora trattati si è affermata la necessità di un’organizzazione forte che permetta una partecipazione attiva di una massa crescente nella vita politica. Questa affermazione non può però essere generica, altrimenti rimane solo enunciazione di un principio. L’atto pratico per dar concretezza a questa organizzazione è la creazione di una struttura ben funzionante che dia forma al partito.

Il Partito Democratico presenta da questo punto di vista una base discreta, anche perché ereditata dai precedenti partiti che hanno poi dato vita al Pd. La struttura che si presenta è quella di una serie di livelli di organismi decisionali e dirigenti, con assemblee e direzioni che vanno dal livello territoriale arrivando a quello nazionale; organismi di cui per lo più fanno parte delegati eletti nei diversi congressi. Ciò nonostante questa struttura è apprezzabile soltanto a livello teorico e non a quello pratico a causa di tre motivi principali. Il primo è il funzionamento dei diversi organismi (assemblee e direzioni): questi infatti hanno poteri decisionali estremamente limitati e si presentano per lo più con funzioni consultive. Tale elemento è confermato dal fatto che le stesse riunioni si svolgono solo in maniera saltuaria. Inoltre, in tali riunioni, ciò che realmente prende vita è soltanto una lunga serie di interventi da parte dei delegati, interventi che lasciano il tempo che trovano proprio perché non hanno un fine decisionale. Il secondo elemento deleterio, che contribuisce a creare un distacco fra gli iscritti e questi organi, è la composizione dei delegati: benché a livello teorico ognuno può concorrere per questo ruolo, nella prassi la lista dei candidati-delegati è compilata da gruppi ristretti e quindi relegata nell’ambito delle loro conoscenze: in pratica i delegati scaturiscono da un sistema verticale che non va però dal basso all’alto ma dall’alto al basso. Terzo elemento di debolezza è il fatto che questi organismi non hanno alcun controllo sugli eletti (siano essi consiglieri comunali e regionali che deputati) perché questi non devono rispondere del loro operato di fronte a tali assemblee: anche in questo caso l’attività degli eletti appare un corpo a parte rispetto alla vita del partito, anche perché gli eletti non provengono necessariamente dalla militanza ma giungono spesso a ricoprire i loro ruoli attraverso percorsi individuali.

Se ciò che si è affermato fin qui è vero, occorre un cambiamento radicale di segno, nell’ottica di tre direttrici: invertire il sistema alto-basso a favore di una direzione basso-alto, dare più valore agli organismi dirigenti, cambiare il ruolo degli eletti. La base per questo rinnovamento deve essere la militanza nei circoli territoriali e la creazione di un sistema in cui realmente chiunque, attraverso la propria attività politica, possa prendere parte ai meccanismi decisionali del partito:

  • Per creare un sistema di selezione basso-alto, la struttura ideale è ovviamente piramidale e in gran parte ricalcata su quella del Pd: circoli territoriali, direttivi dei circoli, direzione municipale, direzione comunale, direzione provinciale, direzione regionale, direzione nazionale. Quello che cambia in questa struttura è il sistema di accesso nei diversi organismi. I delegati devono infatti provenire dagli stessi circoli: ogni circolo deve infatti eleggere, fra i propri iscritti, un X numero di delegati nei suddetti organismi. Per fare un esempio: il circolo Y elegge per la direzione municipale 5 delegati, per quella comunale 2, per quella provinciale 1, per quella regionale 1. Per la direzione nazionale, per questioni di numero, i delegati potrebbero essere eletti su una base più ampia: ad esempio, guardando Roma, 1 delegato per municipio, quindi un totale di 20 delegati dall’intera capitale. Con questo tipo di accesso nei diversi organismi, si permette ai militanti che svolgono una reale attività nel proprio territorio di accedere ai livelli superiori del partito proponendo direttamente, nei circoli di appartenenza, la propria candidatura, evitando così i caminetti decisionali e la creazione di liste fatte a tavolino. Un discrimine che si può pensare è il numero di anni di militanza per accedere ai diversi organismi, in modo da garantire un minimo di esperienza accumulata: ad esempio un minimo di 2 anni prima di entrare in qualunque organo, direttivo dei circoli compresi, per poi salire fino ad almeno 5 per il livello nazionale. Un discrimine simile va adottato anche nel diritto di voto, ad esempio deve servire almeno un anno di militanza prima di acquisire tale diritto.
  • La seconda direttrice da riformare è quella dell’importanza pratica delle diverse direzioni. Devono essere queste innanzitutto a eleggere i propri segretari (l’unico a essere eletto dagli iscritti è il segretario nazionale, ma anche qui vi è il discrimine di anzianità nel diritto di voto). In secondo luogo devono essere queste direzioni a prendere le decisioni fondamentali nel livello che gli compete. Per far questo occorre dar vita a commissioni interne che elaborino linee-guida da mettere al vaglio dell’intera assemblea e soprattutto occorre che questi organismi si riuniscano con scadenze più frequenti di quanto non avvenga ora. Nonostante questo va mantenuta in piedi una struttura più ristretta come può essere una segreteria (anch’essa però eletta dall’assemblea) che si riunisca in modo assiduo e che sia quindi pronta a dare flessibilità all’operato della direzione stessa.
  • La terza direttrice su cui lavorare è quella dell’operato degli eletti e della loro responsabilità davanti al partito. Per questo fine è necessario un mezzo che agisce in una doppia direzione, ovvero in quella del rafforzamento dei diversi organismi (ampliando così il punto appena trattato) e in quella, per l’appunto, di una maggiore integrazione fra eletti e militanti. Tale mezzo è la discriminante per cui va candidato negli organi istituzionali solo chi è presente fra i delegati dei rispetti organi di partito. In pratica: per i consigli municipali va candidato chi fa parte della direzione municipale del partito, nei consigli comunali chi fa parte della direzione comunale e così via. Anche in questo caso la rosa dei nomi è scelta dall’intera direzione competente stessa (anche se si può pensare a una piccola percentuale di candidati, ad esempio il 5%, scelta in maniera unilaterale dalla sola segreteria). Con questo sistema si raggiunge un triplice scopo: si rafforza l’importanza delle direzioni competenti; si dà una voce importante nella vita del partito ai delegati che, in pratica, rappresentano per la maggior parte i semplici militanti finora tenuti ai margini delle vere decisioni di partito; infine, e soprattutto, si fa in modo che gli eletti non rappresentino un’entità separata ma siano i veri portavoce delle posizioni del partito.
  • A tutti questi punti va aggiunto un elemento vitale per un sano funzionamento di una struttura simile: il costante ricambio di chi prende parte ai diversi organi dirigenziali, che si tratti di segretari di circoli, dei delegati nelle diverse direzioni o degli eletti. Nessuno può ricevere per più di due volte di fila lo stesso mandato, il che implica ovviamente che nessuno può essere per più di due volte essere candidato consecutivamente negli organismi istituzionali. Questo è un elemento necessario per evitare che alla lunga le posizioni acquisite diventino posizioni di rendita, il che, per la natura umana stessa, spesso si traduce in un rafforzamento degli interessi personali a scapito di quelli del partito. Sedere troppo a lungo sulla stessa poltrona è come tenere la finestra della propria camera sempre chiusa: a lungo l’aria comincia a puzzare di chiuso. Un ricambio abbastanza costante (non eccessivamente costante per evitare il rischio opposto: mandare allo sbaraglio quadri inesperti) rappresenta per il partito una fonte di vitalità e dinamismo. Questo discorso va inoltre ampliato a livello più generale: le stesse istituzioni statali necessitano di ricambio. Una rotazione importante della rappresentanza ha come premessa un assunto democratico: la partecipazione alla vita partitica e politica di fasce di popolazione più ampie possibili, nell’ottica di comprendere che il proprio ruolo all’interno della vita politica sia dei partiti che dello Stato è un proprio diritto\dovere civico (e per questo supportato da una vera e propria passione civile), e non un modo per rispondere a propri interessi individuali (per evitare questo vanno inoltre rivisti i poteri dei rappresentanti istituzionali, i loro doveri, le loro forme di reddito, e così via, ma rimando tale discorso a quando tratterò la rivoluzione culturale di cui ha bisogno l’Italia).

 

Questo tipo di struttura risponde, a mio avviso, alla necessità di integrare le masse nei partiti creando quegli spazi di opportunità per incidere, con la propria militanza, nelle decisioni di partito e, nel caso, rivestirvi ruoli dirigenziali.

Da tutto questo ho lasciato per il momento da parte il problema dei giovani. Ogni partito ha infatti strutture giovanili più o meno organizzate a livello anche nazionale. Ma queste strutture servono realmente? Secondo me no. Queste organizzazioni rappresentano infatti delle riserve indiane all’interno dei partiti: inutili sottostrutture, inoltre difficilmente abitate dai volti migliori. A livello nazionale queste organizzazioni vanno quindi eliminate. Questo non significa però assolutamente minimizzare il ruolo dei giovani o abbandonarli a loro stessi. I giovani vanno invece formati e integrati al meglio possibile nella vita del partito dal momento che rappresentano sia una freschezza di idee che col tempo si perde, sia il futuro stesso del partito. Formare realmente i giovani significa attrezzarli nel migliore dei modi per affrontare i loro compiti futuri, il che ha il vantaggio enorme di creare una classe dotata di mezzi propri, evitando così di mandare avanti soltanto chi ha l’abilità di porsi sotto la “protezione” di qualcuno.

Come portare avanti questa formazione? In primo luogo rafforzando la struttura giovanile in un solo livello, quello territoriale, creando, all’interno di ogni circolo, sezioni giovanili. Questo permette infatti di creare spazi di aggregazione e di attività comune: tali sezioni non devono però vivere a parte rispetto al proprio circolo, ma devono rapportarsi a questi con un costante dialogo. In secondo luogo vi è la formazione vera e propria che agisce su due livelli. Il primo è quello di una rete capillare di scuole di partito e di corsi di formazione (in cui gli eletti e i dirigenti di partito, anche i più importanti, devono avere un ruolo costante) che abbiano come fine da un lato una elaborazione teorica, dall’altro un insegnamento pratico di come funzionano le grandi istituzioni (per fare degli esempi: parlamento, Unione Europea, giustizia, istituzioni economiche e così via): tali scuole e tali corsi vanno ovviamente finanziati dal partito, il quale ha la necessità di investire nei propri giovani, oltre a svolgere una funzione democratica di creazione di pari opportunità. Il secondo livello è quello del contatto concreto e quotidiano con le istituzioni partitiche e statali, a partire dal livello municipale arrivando a quello nazionale, affiancando i giovani a gruppi di consiglieri, di deputati, di dirigenti di partito, ecc… Ovviamente questo lavoro è molto più facile a livello territoriale, dove è più diretto il contatto con l’amministrazione e i suoi rappresentanti, ma va fatto uno sforzo per allargare il più possibile questo impegno.

Così facendo si dà realmente vita ad una generazione preparata e ben formata, che sia in grado di rappresentare un pronto ricambio per la generazione precedente e che abbia gli strumenti per svolgere nel modo più efficiente possibile il proprio ruolo all’interno sia del partito che delle istituzioni.

Diego Gavini

Idee, riflessioni e spunti personali su quali dovrebbero essere, a mio avviso, gli obiettivi di un grande partito di sinistra, quale visione di società deve proporre, in quale maniera deve strutturarsi per dare forza al proprio progetto. In pratica, la mia visione della strada che dovrebbe percorre un partito che, in questo momento, non può che essere il Pd. Il tentativo è quello di dare un minimo di organicità a questi pensieri e strutturarli, con i tempi che saranno possibili, per temi. Oggi l’introduzione e la prima parte: l’organizzazione del partito.

Un grande partito di sinistra deve avere come ambizione quella di portare una rivoluzione culturale in Italia. La sinistra non è mai riuscita ad imporsi in Italia sia per questioni geopolitiche (a livello storico leggi guerra fredda) che sociali (leggi grandi lobby e organizzazioni criminali), ma soprattutto perché il nostro è il paese dove ognuno guarda il suo orticello: dunque è un paese che guarda a destra, ovvero la parte politica che assicura che non ci siano progressi riformisti, civili e legalitari. Per rivoluzione culturale si intende fare dell’Italia un paese veramente civile, in cui dominano il rispetto delle regole e l’eguaglianza civile e sociale, con tutto quello che in questo è implicato (la comprensione che solo un “orto” pubblico ben coltivato garantisce “orti” privati migliori) e con tutto quello che da questo ne consegue: creazione di pari condizioni per superare le diseguaglianze economiche (un’istruzione realmente pubblica, una sanità uguale per tutti, un accesso al mondo del lavoro a partire da basi egualitarie), lotta a favore della legalità, lotta contro le criminalità organizzate (soprattutto a livello socio-culturale in modo da eliminarle alla radice), impegno a favore dell’ambiente e così via…

Prima di entrare nello specifico di questi punti e di allargare lo sguardo ad altri altrettanto fondamentali, serve però una lunga premessa che parta dall’assunto che non si può arrivare ad una rivoluzione culturale se prima non si arriva al governo della nazione, altrimenti le belle parole rimangono tali. Per arrivare al governo non bisogna però “vendersi”: bisogna essere coerenti. Le velleità di vocazione maggioritari vanno quindi sradicate alla base: un partito, come dice il termine stesso rappresenta una “parte” della popolazione. Puntare a guadagnare da soli il 45-50% dell’elettorato vuol dire tentare di far collimare interessi di troppe fasce sociali divergenti, il che è bello a livello teorico ma nella pratica vuol dire eccesso di compromessi e mancanza di coerenza, vuol dire dare vita a grandi calderoni dove c’è un po’ di tutto e quindi un po’ di niente (un esempio lampante è il Pdl; su questa strada anche il Pd prima fase, fase dalla quale però forse si sta fortunatamente cominciando ad uscire). L’unica via pratica per arrivare alla guida dello stato è quindi quella di guidare una coalizione di diversi partiti. Solo in una seconda fase, da questa posizione di forza, sarà possibile iniziare quella rivoluzione socio-culturale che avrà come obiettivo massimo il fatto che fette sempre più ampie del paese mettano gli interessi della comunità davanti ai propri. Questa rivoluzione avrà allora sì come effetto quello di rendere più vicine le diverse fasce sociali e quindi rendere più unitari i loro interessi: solo a questo livello di sviluppo un partito può ambire ad allargare la propria base elettorale, perché a quel punto sarà in grado di rappresentare realmente una parte crescente della popolazione, perché questa parte crescente non sarà più divisa da interessi di categoria ma unita in una visione progressista dello stato.

Per iniziare questo lungo percorso un partito deve innanzitutto tornare a essere credibile e tornare a far comprendere la bellezza della politica. La politica deve essere intesa infatti come un qualcosa di bello, perché da un lato va intesa come amministrazione della cosa pubblica (il che è uno scopo elevatissimo), e dall’altro come attività e quindi il dare alle persone un ideale di società da perseguire.

Come tornare però ad essere credibili e a ridare il gusto della politica?

  1. Bisogna recuperare, almeno in parte, la dimensione ideologica della politica. Questo non vuol dire certamente tornare a visioni totalizzanti come nella contrapposizione comunismo-capitalismo, ma avere almeno un’idea di società da trasmettere sì. Un’idea così persuasiva e forte da potervi “credere” e che torni a coinvolgere la gente. Dalla fine delle cosiddette ideologie il legame fra società e politica si è infatti indebolito notevolmente, e la politica è diventata via via un modo, anche a sinistra, per creare canali personalistici di accesso al potere. Serve dunque un partito che si faccia portavoce di un’ideologia, un’ideologia che a sua volta riavvicini le persone alla politica (e al partito) facendo sì che questa non sia più vista come un modo per soddisfare i propri interessi privati, ma quelli pubblici (come già detto, l’ideologia fondante deve essere quella della “rivoluzione culturale” la quale però verrà analizzata nel dettaglio più avanti).
  2. Per riuscire a dare forza a questa visione quasi ideologica serve un partito forte, ben strutturato e che garantisca un accesso democratico e una voce reale ai suoi militanti. A partire dalla base per arrivare ai vertici devono prendere vita livelli organizzativi fortemente strutturati e che abbiamo un reale impatto sulla vita del partito, sulle sue decisioni sulla sua capacità di assumere linee-guida che siano portate avanti ad ogni stadio. A partire dai circoli e dai loro organismi dirigenti territoriali arrivando alle assemblee a livello nazionali, si devono moltiplicare le sedi e la possibilità di riunire tali livelli organizzativi. Gli eletti poi non devono essere un corpo a parte distinto dalla base dei militanti, ma devono essere i portavoce di quello che viene deciso nelle sedi decisionali predisposte. In pratica il partito deve vivere come un grande organismo in cui ognuno svolge il proprio compito, ma in cui ogni parte diventa interdipendente. Se guardiamo al caso del Pd, il partito che ha l’organizzazione più forte rispetto agli altri partiti, vediamo infatti che, se anche esistono diversi organismi (assemblea nazionale, assemblee regionali, assemblee comunali, fino ad arrivare ai coordinamenti municipali delle grandi città) il loro impatto reale è debole, perché le vere decisioni vengono prese in ambienti differenti; gli stessi eletti agiscono tranquillamente in maniera individuale, le loro azioni non scaturiscono da un continuo contatto con i diversi livelli organizzativi e da un dialogo con i militanti. Negli altri partiti questo è ovviamente ancora più accentuato e quindi ha un effetto più deleterio nel creare un contatto reale fra società e politica.
  3. Un organizzazione forte, in grado quindi di integrare realmente le masse nella vita anche decisionale del partito, è uno degli strumenti basilari per eliminare uno dei grandi cancri della degenerazione della politica: la personalizzazione della politica (ovviamente non è l’unico strumento: il resto lo deve fare l’ormai famoso rinnovamento culturale). Tale personalizzazione ha la degenerazione più evidente in Berlusconi, il quale rappresenta però solo la punta dell’iceberg. Tranne casi virtuosi infatti, la personalizzazione domina tutti i livelli della vita politica stessa, a partire dai segretari di circolo, passando dai diversi eletti, arrivando alle più alte cariche istituzionali (nel centro-sinistra il veltronismo ha contribuito notevolmente a questa personalizzazione e questa strada appare intrapresa anche da Vendola). In tutti questi livelli infatti, gli eletti non sono più un’espressione del partito e della sua politica: sono guide di piccole o grandi reti clientelari, oppure sono personaggi in grado di pagarsi campagne elettorali di spessore. In pratica sono persone (anche se ci sono casi positivi il problema è però strutturale) che agiscono individualmente e che poi, di conseguenza, non hanno l’obbligo di raffrontarsi con la base dei militanti o di seguire le decisioni prese negli organi di partito (un mezzo per evitare questo è ad esempio il creare regole severe e restrittive sulle campagne elettorali garantendo che i diversi candidati abbiamo un’effettiva visibilità durante la campagna; anzi, in uno stadio successivo e più ideale, con ampi strati di popolazione attivi nella vita politica, la campagna elettorale può teoricamente anche essere ridotta all’osso). Questo è possibile sia per l’attuale debolezza organizzativa dei diversi partiti che per una questione più propriamente culturale e che si riferisce al discorso più generale che si sta affrontando: il distacco delle persone dalla politica indebolisce i filtri della politica stessa. Gli eletti possono permettersi di percorre strade individualistiche proprio perché non sono controllati da una base che risulta sempre più debole. Questo, appunto, apre la strada o al clientelarismo o al qualunquismo (aizzando le folle con facili slogan come fanno gli esponenti della Lega o dell’Idv) o, infine, alla competizione fra singole personalità piuttosto che fra partiti (come fanno i succitati Berlusconi, Veltroni e Vendola, o come permettono strumenti quali le primarie: in pratica la politica all’americana).

Diego Gavini

C’è chi fa politica perché crede che sia il modo migliore per favorire il bene comune e chi la fa perché vi vede il modo migliore per avere un tornaconto personale; poi c’è chi la fa e si vede lontano un miglio che sarebbe meglio se cambiasse mestiere, mentre altri la fanno solo per stravaganti manie di grandezza. Quel che è certo è che in molte facce si legge facilmente il motivo per cui sono in politica: in alcune c’è perfidia, in altre un’infinita stupidità, in altre ancora un’esorbitante arroganza. Ma soprattutto in troppe facce si vede come anni di eccessivo contatto col potere riescano a cambiare i lineamenti del viso, ad incattivire gli occhi, a ingrassare le guance per l’eccessivo benessere.

Questa classifica dei peggiori volti della politica non è una graduatoria estetica, non vuole giudicare i belli e i brutti che stanno al potere. E’ una classifica sui politici che al solo guardarli in faccia riescono a suscitare i peggiori sentimenti di riprovazione. Prima di iniziare questa nostra personale graduatoria  avvertiamo che abbiamo raggruppato questi personaggi in gruppi perché spesso far parte dello stesso ambiente muta darwinianamente i lineamenti di esemplari simili tra di loro…

16°) I “difensori” dei diritti civili: Paola Concia e Cristiana Licata (PD)

Senza dubbio le due più combattenti nel Pd sui diritti civili. A tematiche condivisibili corrispondono metodi che però non lo sono affatto. Ma soprattutto, la loro battaglia sui diritti civili è così ampia che si sono elevate anche a tutelatrici delle manifestazioni neofasciste…quando si dice perdere la bussola.

15°) Le donne ministro: Maria Stella Gelmini, Michela Brambilla, Mara Carfagna (Pdl)

 

 

 

 

 

Eccole le donne preferite da Berlusconi. Giovani e belle, quindi in linea con i requisiti minimi per diventare ministro. La Gelmini è passata dall’essere sfiduciata nel consiglio comunale di Desenzano del Garda per inoperosità a volerci spiegare come funziona l’istruzione: se lasciasse il posto alla sorella, che almeno è insegnante, sicuramente farebbe meno danni. La Brambilla fino al 2006 non era nessuno; poi si è inventata i Circoli della Libertà e ha battuto qualunque altra donna in quanto a capacità di venerare l’imperatore, da cui la giusta ricompensa di ministro del turismo. Infine la Carfagna: a questo punto ci potrebbero essere obiezioni, per il fatto che si tratta oggettivamente di una bella donna e che dal suo volto non si notano i danni della politica (tranne che dagli occhi un po’ spiritati). Ma il solo pensiero che sia passata direttamente dai calendari alla poltrona di ministro è uno degli schiaffi più duri a chi pensa ancora che la politica possa essere una cosa seria.

14°) I vecchi radicali: Emma Bonino e Marco Pannella

Da decenni insieme, i due storici leader dei Radicali sono due classici esempi di volti incartapecoriti a forza di dire sempre le stesse cose e di dirle con lo stesso inutile atteggiamento di sentirsi più puri degli altri.

13°) I popolari doc del Pd: Lucio d’Ubaldo e Giuseppe Fioroni

Dal Partito Popolare provengono politici di tutto rispetto come Rosy Bindi e Enrico Letta, per fare solo due esempi. Ma poi anche personaggi come D’Ubaldo e Fioroni. Il primo sarebbe da bocciare solo per essere il perfetto sosia di Craxi, il secondo per quella sua rotondità che in un politico spesso significa pensare prima a mangiare e poi a darsi da fare per gli altri. Ma soprattutto negli occhi di tutti e due c’è quel luccichio dei peggiori democristiani, quelli che, quando vedevano un tavolo, la prima cosa a cui pensavano era come spartirsi le poltrone.

12°) Quelli che si dimettono ma poi restano: Guido Bertolaso e Raffaele Fitto

Del primo si potrebbe pensare che non è un politico, ma bisogna ricordarsi che si tratta di un sottosegretario alla presidenza del consiglio. Il secondo, dalla faccia in apparenza di bravo ragazzo, è ministro agli affari regionali e uomo di riferimento per il Pdl pugliese. Insieme sono coinvolti in così tanti processi da fare invidia a criminali di più alto rango. Ma soprattutto condividono il fatto che, entrambi, quando sono stati un po’ travolti dalle bufere hanno presentato le loro dimissioni: ma entrambi se le sono viste respinte. E ora continuano a sedere allegramente nelle loro poltrone con quella serenità in volto di chi se l’è vista brutta ma che ora può continuare a gustarsi in pace un po’ di potere.

11°) I difensori della civiltà cristiana: Lorenzo Cesa, Paola Binetti, Carlo Giovanardi, Dorina Bianchi e Francesco Rutelli

  

                            

E’ un gruppo estremamente eterogeneo ma accomunato da un paio di caratteristiche. La prima è la loro carriera politica riassumibile nel motto: andiamo dove tira il vento. Tranne Cesa infatti, costante nelle fila dell’Udc, tanto da esserne segretario, abbiamo interessanti itinerari politici. Paola Binetti, proveniente dalla Margherita è oggi nell’Udc dopo essersi resa conto che il Pd è anche un po’ un partito di sinistra con qualche valore laico. Giovanardi ha attraversato tutta l’esperienza centrista per poi fare il salto nelle braccia di Berlusconi. Dorina Bianchi ha compiuto attraversamenti spettacolari nell’arco parlamentare: Pdl, Pd e ora Udc. Il bel Rutelli è invece un maestro in questo genere: Radicali-Verdi-Margherita-Pd-Api. La seconda caratteristica comune è poi il loro spirito di crociata a favore della cattolicità: prima la Chiesa e poi lo Stato. Una tale intransigenza che gli permette di muoversi fra un partito e l’altro senza problemi. Se li guardiamo in volto possiamo leggere la loro tristezza di non essere nati nel medioevo, fra crociate e caccia alle streghe: ora stanno tentando di rimediare con qualche secolo di ritardo.

10°) I lumbard: Roberto Formigoni e Letizia Brichetto Arnalboldi in Moratti (Pdl)

 

 

 

Rispettivamente governatore della Lombardia e sindaco di Milano. Formigoni, esponente di Comunione e Liberazione, appare molto più a suo agio con giacca di pelle e barba volutamente incolta che con liste elettorali e quant’altro, è a metà fra la tipica spocchia milanese e il classico play-boy di provincia che non vuole invecchiare. Letizia Moratti dovrebbe rientrare in questa classifica solo per il nome originale, ma ha guadaganto il suo posto d’onore passando a far danni dalla pubblica istruzione al comune di Milano mantenendo però sempre la stessa espressione di impassibile stupidità.

9°) I fascisti: Ignazio La Russa e Gianni Alemanno (Pdl)

Il ministro della difesa La Russa e il sindaco di Roma Alemanno sono due ex missini passati velocemente al soldo di Berlusconi. Anche se tentano di fare i simpatici in televisione è possibile notare come solo con difficoltà trattengano il tendersi del braccio destro. Mussolini sicuramente li avrebbe promossi sul campo suoi fedeli gerarchi. A questo importante curriculum occorre aggiungere anche i tratti satanici di Ignazio e il progressivo irrigidimento di quelli di Gianni.

8°) Quelli  che dove stanno stanno hanno sempre la stessa faccia: Sandro Bondi, Italo Bocchino e Clemente Mastella

  

  

  

Eccoci di nuovo di fronte a un gruppo eterogeneo che in apparenza non ha nulla in comune: Bondi e Bocchino sono nel Pdl, ma uno è un fedele berlusconiano e l’altro un finiano doc, mentre Mastella è il leader dell’Udeur. Ma a ben vedere hanno un tratto che in assoluto li accomuna: la capacità di avere sempre la stessa faccia a prescindere da quello che dicono. Bondi, al cui solo pensiero di toccargli la pelle c’è da sentirsi male, è un ex comunista che ora sembra passare la vita a scrivere poesie per il suo amore, Berlusconi. Bocchino ha sempre la faccia più arrogante di tutto il parlamento, sia quando difendeva a spada tratta Berlusconi sia ora che si eleva a suo grande critico. Mastella, da buon democristiano, riesce a passare da un fronte politico all’altro con la stessa tranquillità di chi passa dal bagno alla camera: a ogni passaggio però il volto si ingrassa a forza di “mangiare”.

7°) I ministri socialisti: Renato Brunetta, Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti (Pdl)

 

Queste tre figure sono fra le più importanti all’interno dell’attuale governo. Tutti e tre provengono dal Partito socialista. L’apparente contraddizione di come sia possibile che  un socialista stia con Berlusconi è facilmente spiegabile visto quello che era diventato il partito socialista con Craxi: un modo per prendersi pezzi di stato. Quindi niente di strano nel passaggio da Craxi a Berlusconi. Tutti e tre sono poi soggetti assolutamente originali. Brunetta, il ministro-poket che si crede Napoleone, l’iracondo, colui che riesce a contenere in un mini-corpo l’ego più vasto del mondo, il fannullone che attacca i fannulloni (chiedere a Tor Vergata dove Brunetta sarebbe professore, ma nessuno lo vede da anni). Poi c’è Sacconi l’uomo che con tutta la calma del mondo parla dell’abuso di Pomigliano d’Arco come di una riforma del lavoro e poi corre a venerare la tomba di Craxi. Infine Giulio Tremonti, il padrone dell’economia, colui che si autoelogia il salvatore del bilancio italiano e intanto vara lo scudo fiscale oppure una manovra che toglie ai ceti medio-bassi e fa ridere i ricchi.

6°) I siciliani: Raffaele Lombardo, Renato Schifani e Totò Cuffaro

  

  

Il primo è il leader dell’Mpa e governatore della Sicilia, il secondo uomo vicinissimo a Berlusconi e presidente del Senato (peraltro con percentuali di presenza bassissime), il terzo ex governatore siciliano e oggi senatore (peraltro dopo la condanna in appello per favoreggiamento a Cosa nostra si è dimesso da ogni incarico dall’Udc pur rimanendo al Senato, nonostante l’interdizione dai pubblici uffici). Parole per descriverli non sono molto necessarie. Limitiamoci alla forza delle immagini e guardiamoli bene. Poi possiamo anche domandarci che una bellissima terra come la Sicilia sia in grado di produrre tutto ciò.

5°) I capigruppo: Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri (Pdl)

  

  

  

Il primo è capogruppo del Pdl alla Camera, il secondo al Senato. Uno viene dal Partito Socialista, l’altro da An, ma ora sono due intimi di Berlusconi. Ricoprire due ruoli tra loro simili li sta facendo assomigliare sempre di più. Per averne una controprova basta avere il coraggio di accendere la tv e guardare il Tg1: li troverete sempre lì, arroganti come non mai a dire sempre le stesse cose come due macchinette.

4°) I portavoce: Paolo Bonaiuti e Daniele Capezzone (Pdl)

  

  

 

 

Bonaiuti è il portavoce di Berlusconi, Capezzone quello del Pdl. Il discorso fatto per Cicchitto e Gasparri vale in gran parte anche in questo caso: la differenza è la sottile capacità di risultare ancora più irritanti dei due sopraccitati, il che equivale a una vera impresa. Ancora più fenomenale Capezzone che, dopo essere stato il delfino di Pannella ha fatto un rivoltone politico degno di nota, passando dalla Rosa nel Pugno per poi approdare nel Pdl. Probabilmente è proprio per farsi perdonare le sue origini che tenta in ogni maniera di dimostrarsi il pidiellino più accanito.

3°) I difensori della legge: Angelino Alfano e Niccolò Ghedini (Pdl)

I due uomini più cari a Berlusconi: il primo è quello che ha il compito di reinventare la legge per evitare al capo tutti i suoi guai legali; il secondo (in tutto e per tutto uguale a Lurch, il maggiordomo della famiglia Addams) è il suo avvocato, mestiere che continua a svolgere dai banchi del parlamento, e il padre della famigerata espressione: “l’utilizzatore finale”. Assolutamente tra le figure più inquietanti del panorama politico nostrano, con il loro sguardo torvo che sembra uscito direttamente da un film dell’horror. Se solo riuscite ad immaginare di andare a cena con due facce simili avete uno stomaco di ferro.

2°) I leghisti: Umberto Bossi, Roberto Cota, Roberto Calderoli, Mario Borghezio e Renzo Bossi

La Lega Nord ricopre sicuramente un ruolo di primo piano nell’arco parlamentare: non riesce ad annoverare fra i suoi esponenti un solo personaggio decentemente discreto o che riesca ad apparire almeno per un attimo simpatico. Quasi come se l’antipatia congenita sia fra i requisiti minimi per accedere nel partito. Ma i quattro personaggi presi in considerazione sono senza dubbio il non plus ultra del peggio che il partito padano riesce ad esprimere. Il posto d’onore tocca a Bossi, l’iracondo secessionista fondatore della Lega, il capo-barbaro. Calderoli è invece colui che, come ha ipotizzato Benigni, “ciò che noi umani non risuciamo neanche ad immaginare”. Giovane ma promettente il governatore Cota, che all’irritazione naturale che suscita il suo sguardo riesce ad unire la voce più fastidiosa nell’intero arco politico. Poi l’esaltato Borghezio, colui che, prima di definire gli immigrati “bastardi islamici da prendere a calci in culo”, sembra aver fatto il bagno in mezzo a una frittura. Come non chiudere però con Bossi jr., la “trota”: se le premesse per il futuro sono queste stiamo a posto.

1°) Il cavaliere e i suoi scudieri: Silvio Berlusconi, Marcello dell’Utri e Gianni Letta (Pdl)

Eccoci arrivati alla triade d’eccellenza. Su Berlusconi bisognerebbe scrivere libri e libri per essere esaurienti, ma basta dire come nel suo volto sono condensati tutti i mali della politica italiana. Allo stesso tempo non bisogna però dimenticare le due menti politiche alle sue spalle: Marcello dell’Utri, ideatore di Forza Italia, colui che, come egli stesso ha dichiarato, si è fatto eleggere per cercare di non avere guai con la giustizia e Gianni Letta, colui che dietro le quinte risolve tutti i problemi di Berlusconi, specialmente presso la Santa Sede. Una triade agghiacciante.

Diego Gavini